Stand-by. Il tempo dell’attesa
A cura di Gaia Ferrini
«Aspettare è un’imposizione.
Eppure è l’unica cosa che ci fa percepire fisicamente
il logorio del tempo e ce ne fa conoscere le promesse.»
Andrea Köhler, L’arte dell’attesa
Si aspetta con impazienza nel traffico, dal medico, in linea. Con speranza si attende la persona giusta, una telefonata, il domani; con timore un esito o un referto. Infinite sono le forme di attesa e le emozioni ad essa collegate. Esistono persino luoghi – o meglio, non-luoghi – dove non si fa altro che attendere: stazioni, aeroporti, sale d’aspetto. Eppure, quello dell’attesa è un tempo considerato inutile, un vuoto da riempire nell’agenda degli impegni programmati, una casella bianca sul calendario. In una società orientata alla costante produttività, aspettare significa perdere tempo, accettando passivamente ciò che non si può controllare. L’attesa costringe l’essere umano a fare i conti con sé stesso nel presente, nel qui ed ora per eccellenza, ma è anche la condizione necessaria allo sviluppo di un’idea e al raggiungimento di qualsiasi obbiettivo. È l’ingrediente segreto della felicità.