My body is (not) a cage
a cura di Angela Calderan, Flavia Rovetta, Susanna Tavella
Da esibire o rinnegare, da idolatrare o biasimare: il corpo femminile è spesso ridotto a oggetto con una destinazione d’uso. Gli sguardi esterni, intrisi di desiderio o rimprovero, lo sottopongono a un giudizio costante, che lo lascia spersonalizzato e frainteso.
È quindi facile che cada vittima di stereotipi e miti di plastica, limitandosi a essere uno sterile involucro per l’identità.
Il concetto astratto di perfezione fisica, imposto dalla società e veicolato dai media, deforma le aspettative, inducendo spesso le donne a sentirsi sbagliate e fuori standard. In alcuni casi, un difetto o una particolarità possono assumere un’importanza tale da trasformarsi in ossessione, facendo insorgere ansie e vergogna nei confronti del proprio aspetto.
La stessa definizione di “femminilità” non è priva di insinuazioni e costituisce un’etichetta che condanna ogni difformità rispetto ai canoni imperanti. Accusato di non essere come dovrebbe o come lo si vorrebbe, il corpo può perfino diventare una prigione in cui restare irrimediabilmente costrette e relegate.
Questo insieme naturale di pelle, carne e ossa è “sempre pronto a essere investito da nuove ideologie, la pregnanza delle quali è tanto più grande quanto si intende sottrarvisi, resistervi o controllarle”. Per una donna, il semplice atto di esporsi comporta la valutazione del suo corpo, che viene così travolto dai pregiudizi.
Tuttavia, a questa prospettiva soffocante se ne contrappone un’altra: imperfezioni e incongruenze, accettate come contingenze della vita, non sono più limiti ma opportunità di esplorazione e trasformazione.
La parola limite, come suggerisce la sua etimologia, indica al contempo chiusura e varco, barriera e soglia. Ecco allora che cicatrici, nei e altri segni cutanei disegnano mappe di nuove narrazioni, e le adiposità rinascono sotto forma di inediti paesaggi da scoprire.
I modelli estetici asettici e precostituiti vengono superati, per lasciare il posto a corpi reali, ciascuno diverso dall’altro e apprezzato per le proprie caratteristiche di unicità.
“Il tuo corpo è un campo di battaglia”, affermava Barbara Kruger, e ogni donna ha le proprie armi per combatterla, riappropriandosi di una personale visione della femminilità.
Camuffato o semplicemente esposto nella sua essenziale nudità, il corpo diviene così mezzo di espressione e ribellione. Un travestimento, infatti, può agire come una seconda pelle, da indossare per identificarsi in altro da sé, ritrovando la propria autenticità. All’estremo opposto, mettersi a nudo significa abbandonare ogni sovrastruttura, per riscoprire un’intimità trascurata. Il corpo perde i suoi connotati e, trasceso, si fa spazio di libertà assoluta. È così che la pelle si espande oltre i propri confini e si rivela lo strumento per spogliarsi della gabbia, disegnando nuovi territori d’azione.
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